TE LE SUONA...E TE LE CANTI..!

In altri tempi, un nuovo album dei Cure avrebbe fatto un rumore pazzesco. Invece, per molti, “Songs of a Lost World” uscirà in un 1° novembre caldo e annoiato, come tanti altri dischi, come tante altre cose che facciamo, leggiamo, ascoltiamo e poi mettiamo da parte. Sono passati 16 anni da “4:13 Dream”, e chi naviga a vista in questo mare magnum che è la produzione musicale odierna non può che essere diffidente rispetto a questi ritorni in scena, più o meno inaspettati, che di solito si rivelano celebrazioni di sé, nostalgismi fuori dal tempo o, al contrario, difficili tentativi di rinnovamento, di riposizionamento in un universo che nel frattempo si è mosso nelle direzioni più imprevedibili. Al termine dell’ascolto, non so davvero quale sia la soluzione del caso, perché i Cure non sono qualcuno, e “Songs of a Lost World” non può essere un disco qualunque. Sono sopraffatto dalle sensazioni più disparate, e il motivo principale è Robert Smith, che è ancora quella voce, quel suono, quella idea di essere la persona che trova le parole giuste al momento giusto per noi, in qualsiasi epoca e a qualsiasi età. È sicuramente un dono, il suo, quel singhiozzare e accarezzare fino a destabilizzare il cuore: lo conoscevamo già, certo, ma risentirlo oggi crea quell’effetto di connessione che avevamo smarrito. Non può essere solo nostalgia, e “Songs of a Lost World” non può che essere un disco slegato dal tempo, pur essendo incentrato sul tempo stesso: sul suo scorrere, sul suo inerpicarsi lungo gli accidenti della vita, sul suo esaurirsi ineluttabilmente. È un disco scritto e suonato da persone anziane – fa brutto dirlo e non saprei come esprimermi altrimenti – ma non è stereotipato. Non c’è saggezza, bonomia o didattica; anzi, si percepisce solo il bisogno di far trasparire la propria identità nella maniera più semplice e naturale possibile, perfino rilassata, schivando i meccanismi di un sistema nel quale infilarsi sarebbe letale. I Cure non rifuggono da sé stessi, e nemmeno cercano strade diverse. Anzi, in “Songs of a Lost World” c’è la coscienza, l’urgenza perfino, di essere anacronistici: ci sono parti strumentali e intro lunghissime, un suono grosso, lugubre e minaccioso, ma al tempo stesso intimo e fragile. Impossibile non fare rimandi ai tempi andati; sarebbe un esercizio mentale troppo complicato. Alone, per esempio, si colloca chiaramente ai tempi di “Disintegration”, War Song a quelli di “Lullaby”, Drone: No Drone a quelli di “Pornography”, A Fragile Thing a quelli di “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” e via dicendo, e tutto questo è espressione del fatto che siamo di fronte a un disco tutt’altro che monocromatico. Melodie rilassate che appaiono funeree (All I Ever Am), macigni emotivi che solcano il cielo sospinti da nuvole leggere (And Nothing is Forever), onde di dolore che si infrangono delicatamente su una sabbia scura come la morte (I Can Never Say Goodbye): questa è la descrizione di ciò che i Cure sono stati e che hanno scelto di essere ancora oggi, con una spontaneità che nessuno, in fondo, gli chiedeva. L’importanza di un disco come questo sta nella sua capacità di dare un senso alla fine, imminente o lontana che sia, di trovare splendore nelle rovine e donare loro dignità. Robert Smith ha dichiarato che potrebbero esserci altri due album in arrivo, ma la sensazione forte è quella di ascoltare un grande disco di addio, scritto con piena consapevolezza e necessità di essere un grande disco di addio. FONTI DAL WEB

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